
Una settimana in Ucraina era bastata ad innamorarci di un Paese intero e della sua gente.
Salutiamo i nostri nuovi amici con gli abbracci, le lacrime e i sorrisi che accompagnano ogni momento che è unico e irripetibile: ripartiamo con destinazione Varsavia e subito finiamo in una sorta di grottesco incubo kafkiano. Alla frontiera con la Polonia veniamo fatti scendere tutti dal pullman e infilati in uno stanzino in 40, mentre l’autista viene convocato dal doganiere, ci restiamo per due ore senza vedere nessuno, finchè l’autista torna e scopriamo cosa ci permette di passare: un “regalino” esplicitamente richiesto dal doganiere, che non parla che ucraino, ma conosce benissimo i nomi delle valute europee. Altrove si chiama corruzione, tangente, mazzetta, qui è la regola, a quanto pare.
Varsavia è il ritorno al nostro comodo, rassicurante Occidente, è una doccia calda dopo una settimana di acqua gelida, è cibo familiare, è l’insieme di tutte le comodità che abbiamo sempre dato per scontate e che ora ci appaiono quasi un miracolo.
Il centro città ci accoglie con la sinistra e colossale sagoma del Palazzo della Cultura e della Scienza, grigio e squadrato in puro stile sovietico, visibile da tutta Varsavia, un regalo, dicono, di Stalin ai polacchi per ricordargli l’onnipresenza del Soviet, un Grande Fratello di cemento armato, Occhio di Sauron puntato sull’alleato/suddito: vaghiamo con l’idea di andare a vedere il fiume, la Vistola, camminiamo letteralmente a caso lungo strade trafficate e periferie pietrose e grigie, scoprendo che poi alla fine, quel fiume ha lo stesso color cemento dell’ambiente intorno, una sorta di periferia fluida. Continuiamo a vagare a caso, complice un biglietto dei mezzi giornaliero che scopriamo essere tale interpretando i gesti della signora dell’edicola che indica l’orologio che fa il giro, ed entriamo quasi in un’altra città, ai bordi del centro: il Ghetto ebraico, raso al suolo dopo la rivolta narrata nel film “Il Pianista”, di cui resta solo una piazza a celebrare con una statua Willy Brandt che in ginocchio chiede scusa agli Ebrei per la Shoah, la Città Vecchia con le sue torri e i palazzi neogotici ricostruiti con le stesse macerie a cui erano stati ridotti dai bombardamenti, il grande e verdissimo Lázeňský park. Città gradevole, Varsavia, ma con quell’atmosfera di bellezza ancora incompiuta, forse stroncata sul nascere dalla follia dei totalitarismi di entrambe le bandiere.
Ripartiamo, sostando a Vienna per una notte, sono le 23 quando entriamo nel bell’albergo ai bordi del Ring, la sorta di circonvallazione interna che circonda il centro: ceniamo letteralmente accampanti sulla moquette della camera, tutti insieme, con scatolame, pane a cassetta e quello che ci era rimasto dalle provviste di emergenza. Si fa l’una, c’è già aria di andare a dormire, dato che la sveglia sarà alle 7, ma PP mi guarda, mi fa una domanda più volte sentita, a cui segue sempre la stessa risposta: “Usciamo?”, “Certo”; guardiamo gli altri, stanchi e sfatti, e PP esclama, indicandomi mentre sto seduto per terra a mangiare una scatoletta di tonno:” Ragazzi, non so quando torneremo ancora a Vienna, io e quell’altro esaurito usciamo, chi vuole ci segua”. Saranno in 3 coraggiosi ad unirsi a quel nomadismo notturno in quella sera di agosto, in una città totalmente vuota, quasi fosse preparata apposta per farci godere della sua luminosa ed elegante bellezza: l’HofBurg, il Rathaus, e poi la Cattedrale di Santo Stefano, chilometri a piedi nel deserto notturno. Individuiamo qualcuno in fondo ad un vialone, da bravi siciliani caciaroni urliamo qualcosa, lui ci risponde in un linguaggio diverso dal nostro ma familiare, si avvicina: è un ragazzo giovanissimo, emigrato dalla provincia di Foggia. Facciamo un po’ di strada insieme, godiamo ancora della bellezza di quella città addormentata o in vacanza, di cui siamo unici testimoni: torneremo alle 6, sfatti, i nostri compagni di stanza già a letto da ore che ci han chiuso fuori, ma fa niente, si trova una camera a caso, si dorme a caso, l’indomani si riparte: riportiamo in Sicilia l’abbraccio del popolo ucraino, il calore del bacio di Varsavia, il sapore di un morso fugace a Vienna. Torneremo nella capitale austriaca l’anno successivo, inaspettatamente, ma quella notte nel cuore dell’Impero rimarrà unica e irripetibile.
L’articolo Appunti di viaggio: Ucraina mon amour pt. II: un bacio a Varsavia, un morso a Vienna. proviene da GAS – Quello che in Ticino non ti dicono.
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