
C’era sempre un divano, un letto, un tappetino per terra in quell’appartamento al secondo o terzo piano di Via Etnea 389, quasi in cima a quel lungo taglio lastricato in lucido, scivoloso e pertanto infido basalto vulcanico, che dal mare taglia Catania verso Nord, in lenta e inesorabile salita, quasi una sorta di rampa di lancio dalla città all’esterno, la provincia quasi scavata essa stessa nella nera roccia lavica, vomitata fuori da quel vulcano che, lontano chilometri ma visivamente quasi alla fine della salita, sembra al tempo stesso sorvegliare e minacciare la Città dell’Elefante.
Dietro quel grande e austero portone verde, qualche piano sopra l’appartamento di tale signora Fallica il cui nome sul campanello era sempre motivo di qualche risatina salendo su per le scale, quel grande salone diviso in due da un arco, con le camere ad affacciarsi su di esso, è stato un porto sicuro, un approdo alla fine di frequenti viaggi sui precari treni regionali da casa mia a Catania, un angolo di mondo sui cui cuscini ho adagiato i miei vent’anni, in quell’inizio secolo che lasciava indietro gli anni ’90 ma che lì, fra la Via Etnea e gli Archi della Marina, tratteneva con le unghie e con i denti la fiamma dell’alternativa che era divampata qualche anno prima a Seattle, e che la pallottola nella testa di Cobain in fondo non aveva ancora ucciso.
Era un’altra Catania, quella che all’epoca veniva appunto chiamata “la Seattle del Sud”: una città che non finiva di sfornare idee, movimenti, artisti, un continuo pulsare di un cuore sempre vivo, lo sguardo all’America ma i piedi bene a mollo nello Jonio e le mani saldamente aggrappate alla pietra lavica: pochi anni prima erano passati i REM con i giovanissimi Radiohead a fare da spalla, nella provincia arrivavano ancora gli Skunk Anansie, gli emergenti Coldplay, i Sonic Youth, roba da fare invidia a qualunque festival rock. Ovunque era un fiorire di locali, pub, postacci dove la musica dal vivo non era il pretesto per far più soldi, ma era vera arte, creatività, calore.
I miei viaggi a Catania allora iniziavano con una telefonata a PP, in quei mercoledi anonimi della vita da studente universitario: “Ciao! C’è qualcosa stasera?” a cui seguiva l’elenco delle serate, o spesso un generico “No, ma vieni che usciamo lo stesso. Resti qua?” “Si”, “Ok”; poi metter dentro un cambio in uno zaino devastato da anni di liceo, avvisare mammà che vado-a-catania-torno-domani-sono-da-peppe, arrampicarmi fino alla desolazione della stazione di paese abbandonata a se stessa dai tagli di Trenitalia, e farmi portare da quella lurida carrozza metallica fino a destinazione.
Mi accoglieva sempre un abbraccio e un sorriso, a volte una cena pronta, o solo una birra perché si andava fuori, non si perdeva neanche un momento di quelle notti: spesso, davo un’occhiata a quel bizzarro acquario in cui un sorridente Buddha guardava placido l’andare avanti e indietro di un paio di pesci colorati, due enormi piranha erbivori, una cernia e un piccolo astice. Quell’acquario, storia nella storia, ebbe una contorta e sanguinosa vicenda: alla fuga dell’astice lungo il tubo, conclusasi con la tragica morte sotto la credenza, seguì la misteriosa serie di omicidi ittici, di cui caddero vittima tutti i pesci dell’acquario e la cui mente criminale fu infine individuata nella cernia, colta sul fatto con la codina della vittima ancora fra le voraci fauci.
Poi si andava fuori, verso il centro storico anch’esso lastricato di dura pietra vulcanica, fiancheggiando le chiese barocche che si affacciano sulla strada come vecchiette pettegole che hanno storie infinite da raccontare, andando oltre Piazza Stesicoro e le sue memorie archeologiche che emergono dal sottosuolo, fino al cuore di quel movimento di anime più o meno ribelli: Piazza Bellini, per tutti Piazza Teatro; da una parte, accanto al Teatro, sostava discreta una macchina o una camionetta della polizia, dall’altra, sulle scale di un non meglio identificato palazzo di architettura fascista, un raduno di varia umanità, studenti, musicisti, qualche punkabbestia. Su quelle scale si celebravano la libertà, la musica e l’antiproibizionismo senza che la lunga mano della repressione arrivasse a punire, una sorta di pacifico patto non scritto fra frequentatori e polizia: voi non fate casino, noi non vi rompiamo le palle; eravamo un duo abbastanza collaudato su quelle scale o su quelle del Nevsky, io e PP: lui col suo djembè e la sua voce acutissima, io col mio chitarrino e il solito repertorio, Bob Marley e l’immancabile “Jammin’” su tutti.
A volte invece andavamo a invadere i locali di una volta, a quei tempi, nomi che oggi probabilmente risvegliano ricordi nella mia generazione, e di cui ora rimane il nome e la memoria; al Taxi Driver i concerti erano all’ordine del giorno, ma amavamo in particolare il Clone Zone, vicino alla stazione, quel vetusto capannone con la sua porta scorrevole di metallo in cui con 5000 lire, o a volte neanche quelle, andavamo a ballare rock, punk, ska, nu metal, o meglio a prenderci amorevolmente e allegramente a spallate e spintoni, a volte solo io e PP, altre volte in compagnia, come quella volta che sulle note di un “E noi a Marco lo menamo” finii inseguito per tutto il locale ormai vuoto.
Ma Catania, in fondo, per me era soprattutto quell’appartamento in Via Etnea, quegli attimi lontani dal quotidiano, le compagnie improvvisate che frequentavano la casa, i film sulla Pay Tv taroccata, improbabili cene e festini alcolici, le notti sul divano grande o, se ero meno fortunato, sulla poltroncina, a volte insieme ad altri che approdavano su quelle rive, persone che passavano lasciando sempre qualcosa di sé, una storia, un sorriso, un pensiero. Che fosse un carnevale (come quello in cui mi vestii da Morte Buttana a comporre un improbabile trio con PP profeta evangelico-campestre e il Cardinale Xam con tanto di bastone pastorale), un capodanno ( quello in cui vidi saltellare per la piazza il cappello alla pescatora rosso di PP che rimbalzava fra la folla nel pogo mentre a mia volta pogavo su Xam), un compleanno, festa di Sant’Agata o un qualsiasi mercoledi, Via Etnea 389 era il centro di ogni movimento, un appoggio confortevole e sicuro: non importava l’ora, il giorno, l’occasione.
Poi, come tutte le cose, quella storia arrivò ad una fine: normali traslochi tra studenti, PP cambia casa e lascia quel piccolo angolo di mondo, e con lui anche io ho lasciato i miei vent’anni in quella casa, appesi alle pareti come i post-it che tappezzavano l’arco interno con su scritta qualunque castroneria: non ho smesso di invadere le varie case in cui PP si spostava, né di frequentare Catania, per un po’ di anni ancora, ma quell’atmosfera, quel calore, quella sana follia post-adolescenziale è rimasta là, dietro quel portone verde. E con essa, forse, i miei anni più spensierati.
C’est la vie.
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