Si può nascere settant’anni fa in un’isoletta nell’Oceano Indiano, sotto dominio inglese, da genitori appartenenti a un’antichissimo gruppo religioso e diventare una leggenda, al punto che persino un crostaceo endemico del luogo viene ribattezzato col tuo nome?
Sì, se ti chiami Farrouk Bulsara, occidentalizzi il tuo nome aggiungendo quello di un dio e diventi, per tutto il mondo, Freddie Mercury, The Queen.
È difficile, quando si parla, probabilmente, del più grande frontman che abbia mai calcato i palcoscenici della musica mondiale, sfuggire alla retorica e non usare termini come “leggenda”, “Dio del Rock”, “Mito”; ciononostante, Freddie Mercury da Zanzibar incarna per molti l’icona stessa della rockstar: trasgressivo ma senza sfociare nella volgarità, amante degli eccessi, eccentrico, istrionico.
Al di là delle incredibili doti vocali, oggetto peraltro di studi scientifici data l’eccezionale estensione vocale che riusciva a raggiungere senza l’utilizzo del falsetto, e lo straordinario ed eclettico talento compositivo (in cui, a onor del vero, era ben supportato dagli altri membri dei Queen a partire da Brian May, autore anch’egli di buona parte delle hit della band), ciò che rimane nell’immaginario collettivo è l’immagine di un uomo che da solo esalta una massa di migliaia di persone venute ad osannarlo, che, per usare le parole dell’altrettanto compianto David Bowie, “tiene il pubblico sul palmo della mano”.
Perché Mercury era questo: un artista che viveva per il pubblico, che del suo entusiasmo si nutriva e che ricambiava entusiasmando a sua volta le folle che correvano ad acclamarlo in giro per il mondo, persino nella Budapest della Cortina di Ferro, in cui i Queen furono la prima band occidentale ad esibirsi, ricambiando l’accoglienza con l’esecuzione di un pezzo tradizionale ungherese scritto da Freddie sul palmo della mano.
Tuttavia, se una critica si può muovere, Freddie Mercury non utilizzò mai il suo colossale impatto sul pubblico per sostenere esplicitamente una causa o un ideale politico, come invece sarà il caso, ad esempio, di Bono Vox degli U2, preferendo sempre rimanere disimpegnato. Suscitò infatti molto scalpore la scelta di organizzare nel 1984 una decina di concerti nel Sudafrica dell’apartheid a Sun City, una sorta di città-resort simbolo esso stesso dello strapotere dei bianchi: Freddie giustificò tale decisione con la voglia di portare la sua musica in ogni parte del mondo, ma l’ambiente musicale e la critica giurarono vendetta ai Queen, che persero quasi del tutto il loro mercato americano, già scandalizzato dal video di “I want to break free” in cui Freddie appare vestito da casalinga.
Ma proprio dalle contestazioni riguardo i concerti in Sudafrica nacque quello che fu uno dei momenti più alti della storia del rock: i Queen, seppur inizialmente riluttanti e considerati da alcuni incoerenti, parteciparono al Live Aid del 1985 a Wembley, storico evento in favore dell’Africa organizzato da Bob Geldolf. Freddie salì sul palco in jeans e canottiera, e per i seguenti 21 minuti fu davvero l’uomo che teneva in pugno la folla, sfidando le migliaia di persone presenti ad applaudirlo, comandando a bacchetta i loro applausi, accompagnando i loro cori, in quella che è considerata una delle migliori performance di una rock band di tutti i tempi, al punto che lo stesso Elton John, grande amico di Freddie, nel backstage urlò “Bastardi! Avete rubato la scena!”
Freddie Mercury visse per buona parte dei suoi ultimi anni nel nostro Paese, a Montreux, sul lago di Ginevra, dove, devastato nel fisico dall’AIDS, mise tutti i suoi sforzi nelle ultime incisioni che uscirono postume; sul lungolago, una statua lo ricorda ancora, in quella posa plastica con il pugno alzato a dominare il suo pubblico. Lo stesso pubblico che anche dopo la sua morte, a 70 anni dalla sua nascita, continua a visitare Montreux per farsi fotografare accanto a lui: anzi no, ai suoi piedi. Come è giusto che sia.
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